Rapimento di Giuseppe Di Matteo

Il 14 dicembre del 1993 Francesca Castellese, moglie di Mario Santo Di Matteo - che da poche settimane aveva deciso di collaborare con la giustizia - denunciava la scomparsa del figlio tredicenne Giuseppe. Il bambino, in realtà, mancava da casa già dal precedente 23 novembre; quel giorno, recatosi presso un maneggio di Villabate (PA) per accudire due cavalli di proprietà della famiglia e per dedicarsi a un pomeriggio di equitazione, non era più tornato a casa.Giuseppe Di Matteo
La donna aveva cercato invano notizie del figlio presso tutti gli ospedali cittadini; infine, in serata, uno sconosciuto aveva lasciato sotto la porta di casa del suocero (Giuseppe Di Matteo, padre del collaboratore Mario Santo), un biglietto sul quale erano scritte frasi del tipo "il bambino lo abbiamo noi e tuo figlio non deve fare tragedie", con l'intimazione di non avvisare le forze dell'ordine. Il giorno 1 di dicembre, un nuovo messaggio era giunto alla famiglia, con la scritta "tappaci la bocca" e due foto Polaroid del ragazzo che teneva in mano un quotidiano del giorno 29 novembre.
Era stato subito chiaro - sia alla famiglia sia, più tardi, agli inquirenti - che il sequestro del ragazzo era da ricollegare alla decisione del padre di collaborare con i magistrati, rivelando - oltreché una serie di dettagli sulle famiglie mafiose della provincia - anche le responsabilità proprie e dei propri complici per la strage di Capaci in cui era rimasta vittima il giudice Giovanni Falcone con la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta. Proprio sulla base delle dichiarazioni del collaboratore, grazie anche ai riscontri ottenuti dalle indicazioni di Salvatore Cancemi e Gioacchino La Barbera, era stato possibile avere un quadro accusatorio chiaro nei confronti di Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella e il gruppo di uomini d'onore appartenente alle famiglie "corleonesi" implicato nella strage e in altri gravi delitti
Il sequestro del piccolo Giuseppe, dunque, rappresentava uno formidabile strumento di ricatto, pressione e intimidazione per indurre il collaboratore di giustizia a "rivedere" la propria posizione e smentire le dichiarazioni fornite agli inquirenti.
Le aspettative dei rapitori, tuttavia, erano andate deluse e Mario Santo Di Matteo - seppure angosciato dalla sorte del figlio - non era tornato sui suoi passi.
In linea con una generale strategia di contrapposizione frontale ai cosiddetti "pentiti" - di cui erano già stati tragicamente vittime i familiari di Salvatore Contorno, Tommaso Buscetta e Francesco Marino Mannoia - anche sul piccolo Giuseppe, ormai ridotto allo stremo delle forze per la prolungata e dura prigionia, si abbatteva la feroce vendetta dei suoi carnefici, che lo strangolavano, disciogliendone poi il corpo nell'acido.